News 2016
Notizie, novità e comunicazioni
Diamola per letta
9 dicembre 2016
Lettere a Francesca
Enzo Tortora.
Grazie alla collaborazione tra l’ex senatrice Francesca Scopelliti, la Fondazione Enzo Tortora e l’Unione Camere Penali sono pubblicate, in questo bellissimo volumetto, le lettere che Enzo Tortora scrisse alla sua compagna dal carcere nei lunghi mesi di carcerazione preventiva, quando lui, da volto amico nelle case di tutti gli italiani, si era trasformato per l’opinione pubblica (opportunamente sobillata da una pressione mediatica senza precedenti) in un “cinico mercante di morte”.
Il caso, che nella storia italiana recente costituisce il più clamoroso “errore” giudiziario (dove le virgolette indicano l’inadeguatezza di un termine che forse andrebbe modificato in crimine, come ribadisce la senatrice Scopelliti), è noto a tutti ma non fa male farne un ripasso guidati, “da dentro”, dalle parole di chi subì quella barbarie. E così di Tortora si scopre un lato forse poco conosciuto, quello della sua cultura profondissima, che gli consente di interrogarsi, a volte disperatamente, non solo sull’assurdità delle accuse che gli sono mosse ma anche sull’incoerenza di un sistema che abusa della misura cautelare per malcelati scopi mediatici e che non si fa remore a infliggere ai detenuti condizioni inumane.
La raccolta di lettere alterna momenti di ribellione a momenti di intimo amore per la compagna, che quasi si ha imbarazzo a scoprire; particolarmente emozionanti sono poi le lettere in cui Tortora mostra una determinazione feroce nel voler lottare, fino all’ultimo, per far emergere la propria innocenza.
Insomma una denuncia delle condizioni del carcere e dei detenuti e un grido di dolore sullo stato della giustizia e sulla gogna mediatica (o di Stato?) che qualsiasi malcapitato può trovarsi a subire come la subì Tortora. Sembrano parole scritte ieri, invece sono passati 33 anni in cui, tra l’altro, è entrato in vigore un codice di procedura penale nuovo che avrebbe, in teoria, dovuto comportare un cambiamento radicale (sappiamo che così non è stato). La lezione però è sempre attuale, anzi sempre più attuale e ci ricorda che le conquiste di civiltà devono essere sudate tutti i giorni, nelle aule di tribunale e nella difesa degli imputati eccellenti come degli ultimi, e per ribadire con forza e fermezza che i diritti dell’imputato vengono prima di tutto, prima della rapidità dei processi e dell’efficientismo: ricordiamo spesso che l’abolizione dell’appello, più volte ipotizzata, avrebbe portato Tortora a morire da colpevole, ma vi è di più.
Per fare un esempio ancora più calato nella realtà dei giorni nostri, se, nell’ambito della riforma Orlando passasse la normativa sul processo a distanza e i detenuti fossero costretti a difendersi lontano dall’aula, senza il difensore al proprio fianco e sedendo in un angusto ufficio anziché nell’aula in cui si amministra la giustizia “in nome del popolo italiano”, il prossimo Enzo Tortora – e ce ne sono, e ce ne saranno! – non potrebbe sfidare i propri giudici dicendo loro in faccia, a muso duro: “io sono innocente. Spero lo siate anche voi”.
Un libro che dovrebbe essere letto dai tecnici ma soprattutto dai cittadini, a partire dai giovani, nella speranza, in questi tempi particolarmente duri per le istanze garantistiche e di libertà, di formare un’opinione pubblica in grado di giudicare con spirito critico e meno influenzato dal clamore mediatico.
Un’esortazione a non arretrare mai, nemmeno di un centimetro, sul piano dei diritti individuali, perché lo Stato resti, soprattutto, uno stato di diritto.
Corso di formazione tecnica e deontologica dell’avvocato penalista
19 settembre 2016
La lezione del “Corso di formazione tecnica e deontologica dell’avvocato penalista” prevista il 30 settembre è sospesa. La prossima lezione del corso sarà quella del 14 ottobre.
Diamola per letta
28 luglio 2016
Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla
Gherardo Colombo.
Gherardo Colombo è uno dei celeberrimi magistrati del pool di Mani Pulite che, dal 1992 in poi sconvolse l’Italia e il suo sistema economico e politico. In quegli anni di persone in carcere ne mandò tante e non stiamo a rivangare se fosse sempre necessario. La storia sta già dando la sua risposta. Di fatto, per quel che qui interessa, il dr. Colombo riteneva la carcerazione, preventiva o meno, uno strumento utile, dal suo punto di vista.
Ebbene, ha cambiato idea.
Ha lasciato la magistratura con ampio anticipo sui tempi di pensionamento ed ha avviato quella che sembrerebbe essere una profonda riflessione personale: si dedica a parlare di rispetto delle regole e di educazione alla legalità nelle scuole (esattamente come noi, suoi antichi “avversari”) – www.sulleregole.it – e scrive libri, come questo, in cui cerca di spiegare coraggiosamente – in una società fortemente permeata da un giustizialismo, spesso miope e becero – che il regime carcerario non serve a nulla se non a infliggere una sofferenza inutile attraverso la “vendetta di stato”: se a male si risponde col male, alla fine il risultato non è un’assenza di male, ma una somma, anzi una moltiplicazione, di mali.
Infatti è proprio dal fallimento totale del modello della giustizia retributiva che prende le mosse l’autore, sottolineando profusamente – sulla scia di illustri predecessori, Wiesnet in primis – come si tratti di un sistema che abbandona non solo il colpevole, neutralizzato e privato di qualsiasi possibilità di rieducazione e reinserimento nella società, ma anche la vittima, cioè proprio la persona alla quale si vorrebbe dichiaratamente garantire una tutela più forte ed efficace. Di fatto, una volta celebrato il processo e rinchiuso legalmente il colpevole in carcere per anni, alla vittima cosa resta, al di là di un’effimera vendetta, della quale apprezza ben presto l’inutilità?
Al contrario, nel modello di giustizia riparativa abbracciato da Colombo, è la società a farsi carico – attraverso strumenti come la mediazione – di riavvicinare vittima e colpevole, di aiutare quest’ultimo ad assumersi in piena consapevolezza la responsabilità della sua condotta e di consentirgli, a patto che non sia pericoloso e che voglia riabilitarsi, un percorso rieducativo cosciente ed efficace.
Di qui l’esegesi del titolo: a chi si macchia di reati la società deve necessariamente garantire un perdono, non scontato, non aprioristico, ma che presupponga una volontà di riabilitazione e che sia strettamente finalizzato, secondo il paradigma costituzionale, a una riconquista del reo alla società. Servirà a poco, temiamo, ma il dato confortante è che simili riflessioni scaturiscano da una penna così autorevole e, un tempo, attestata su ben altre posizioni.
Diamola per letta
30 maggio 2016
Alkamar. La mia vita in carcere da innocente
Giuseppe Gulotta, con Nicola Biondo.
Faceva il muratore e aveva 18 anni Giuseppe Gulotta quando fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri nella caserma Alkamar di Alcamo Marina. Ne aveva 56 il 13.2.2012 quando fu definitivamente scagionato da quella terribile accusa. Ne aveva passati 22 in carcere. Un periodo di vita durante il quale gli esseri umani prima costruiscono il proprio futuro, studiano, lavorano, magari mettono su famiglia o semplicemente si perdono per il mondo. Giuseppe Gulotta no. Giuseppe Gulotta ha trascorso la parte migliore della sua vita in carcere, con il marchio infamante – con il crisma della definitività – di avere ucciso due carabinieri.
Era il 27 gennaio del 1976: le indagini dapprima si mossero nella direzione del terrorismo rosso, poi ipotizzando un coinvolgimento della mafia. Infine, il 12 febbraio 1976, si arrivò alla piena, tranquillizzante ed esaustiva confessione di 4 ragazzi di Alcamo Marina e dintorni. Poco importa se, dal giorno dopo, tutti e quattro incominciarono a raccontare delle torture subite dai Carabinieri per confessare: lunghe ore di finte esecuzioni con la pistola, schiaffi, sputi. Poco importa. Quello che conta era avere il delitto perfetto: un innocente in carcere a fare da capro espiatorio e il colpevole libero e impunito.
La terribile storia di Giuseppe Gulotta, raccontata in questo libro, è tornata alla ribalta delle cronache dopo che lo Stato gli ha garantito, bontà sua, un risarcimento del danno di 6,5 milioni di euro (che saranno pagati dai contribuenti, beninteso, non dai torturatori o dai magistrati che si occuparono della vicenda). E’una storia che vale la pena di rileggere per capire come il Leviathano della giustizia di stato possa, ancora oggi, stritolare, masticare e sputare l’esistenza di un essere umano. E’ bene non dimenticarlo, proprio nei giorni in cui il Presidente dell’ANM critica apertamente il fatto che a dibattimento debbano essere “risentiti i testimoni che sono già stati sentiti dai Carabinieri nel corso delle indagini”, che il dubbio è la regola che deve sempre guidare gli operatori del diritto (per l’opinione pubblica, invece, non c’è speranza). Non si tratta solo dell’eventualità dell’errore giudiziario (perché nel caso di Gulotta sembra quasi offensivo parlare di errore giudiziario): quanti Giuseppe Gulotta ci sono attualmente tra le decine di migliaia di detenuti nelle carceri italiane?
Oggi Giuseppe Gulotta è un uomo libero, finalmente. Cercando su you tube si trova un video in cui passeggia in riva al mare della sua Alcamo, un mare bellissimo che contrasta drammaticamente con il suo sorriso triste.
Delibera Camera Penale di Novara
19 maggio 2016
l’Assemblea degli iscritti, ha deliberato di ratificare, a maggioranza dei presenti, la delibera del direttivo del 21 aprile u.s..
L’astensione locale è pertanto stata revocata per il solo giorno 25 c.m.; resta ferma pertanto l’astensione locale per il giorno 24 e, naturalmente, quella indetta dall’UCPI.
Leggi la Delibera del 19 Maggio 2016
Delibera UCPI
7 maggio 2016
La Giunta nazionale UCPI ha deliberato l’astensione per i giorni 24, 25 e 26 maggio 2016.
Leggi la Delibera del 7 Maggio 2016
Diamola per letta
26 aprile 2016
Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini
Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta.
“Più penso ai problemi del carcere più mi convinco che la riforma carceraria da effettuare è quella di abolire il carcere penale e sostituirlo con un luogo dove sia possibile una vita normale, controllata da magistrati, con possibilità di guadagnare, di sposarsi, di aver casa, di vivere civilmente”. Così scriveva Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, in una lettera indirizzata nel 1945 a Piero Calamandrei. E’ dunque di nobile schiatta il c.d. movimento abolizionista (del carcere) che trova in questo breve pamphlet il suo manifesto programmatico.
Contrariamente a quanto possa sembrare non si tratta di una provocazione ma di uno studio rigoroso con il quale, dati alla mano, gli autori dimostrano come fare a meno del carcere si possa e si debba. Del resto in Italia l’82,6% dei condannati sconta la pena in carcere mentre in Francia e Gran Bretagna (ad onta di quanto spesso viene propinato all’opinione pubblica) soltanto il 24%.
Non solo. L’idea del carcere non è ineluttabile né immanente alla storia dell’umanità. Tutt’altro: nella sua declinazione attuale è un’invenzione relativamente recente (diciottesimo secolo); che poi dia risultati pessimi se rapportati all’ambizioso paradigma dell’art. 27 della Costituzione in ordine alla finalità rieducativa della pena è un dato sul quale soltanto chi è animato da malafede può seriamente discutere: basti ricordare il tasso di recidiva di chi sconta la pena in carcere (68%) confrontato con chi, invece, la sconta con una pena alternativa (20%).
Si è anche calcolato, con uno studio che non fa che confermare ciò che ogni penalista sa bene, che la percentuale dei detenuti veramente pericolosi (omicidi, trafficanti di droga etc.) si attesta intorno al 10% della popolazione carceraria.
Pertanto fare a meno del carcere, termine che nemmeno compare nella Costituzione (che parla genericamente di pene, non aggettivandole), si può. Del resto qualche timido spiraglio si è già avuto, con l’introduzione recente di una serie di istituti quali la detenzione domiciliare, la messa alla prova, la particolare tenuità del fatto etc. Ecco allora la ricetta degli autori, declinata in un decalogo di riforme, tra cui l’abolizione del carcere, dell’ergastolo (definita da Papa Bergoglio “pena di morte occulta”), del carcere femminile, la mediazione e altri istituti maggiormente flessibili e “personalizzabili” rispetto all’ottusa rigidità del carcere, risposta statale assurdamente identica per il ladro di polli, per il terrorista e per il boss mafioso.
In definitiva una proposta interessantissima e molto meno utopica di quanto appaia di primo acchito ma che, come correttamente ritenuto dagli autori, ha speranza di fare breccia soltanto qualora si diffonda la conoscenza della realtà carceraria. Solo chi non conosce il carcere (e l’opinione pubblica di sicuro non lo conosce) e le sue storture (per esempio l’alto tasso di suicidi non solo tra i detenuti ma anche tra i poliziotti penitenziari) può augurarlo agli altri e ritenerlo un metodo efficace per garantire la sicurezza della società.
Delibera Camera Penale di Novara
21 aprile 2016
Assemblea straordinaria
12 aprile 2016
Gentili colleghi,
Vi comunico che il direttivo della Camera Penale di Novara ha indetto Assemblea straordinaria degli iscritti, aperta anche ai non iscritti, per discutere dei temi di cui all’ordine del giorno:
– situazione cancellerie penali tribunale;
– disfunzioni e disservizi segnalati;
– analisi cause;
– applicazione protocolli udienze e gratuito patrocinio;
– verifica criticità;
– adozione forme di protesta ed in particolare di astensione dalle udienze.
L’assemblea è indetta per il giorno 21 aprile 2016 presso la sala dell’Ordine degli Avvocati di Novara, in prima convocazione per le ore 7,30 ed in seconda convocazione per le ore 15,00.
Vi invitiamo a partecipare numerosi.
Cordialità
Per il direttivo della Camera Penale di Novara
Il segretario
Giuseppe Brusorio
Convenzione
6 aprile 2016
Stipulata convenzione che garantisce il 20% di scontro agli associati alla Camera Penale con l’Agente Wolters Kluwer, Sebastiano Cucuzza, spesso presente in Tribunale a Novara, al piano terra.
Diamola per letta
4 aprile 2016
Gridavano e piangevano. La tortura in Italia. Ciò che ci insegna Bolzaneto
Roberto Settembre
Inquietudine, disgusto e vergogna. Soprattutto tanta vergogna. Queste sono le sensazioni ricorrenti nella lettura di questo libro non bello dal punto di vista strettamente tecnico – letterario, ma necessario, assolutamente necessario. A scriverlo è Roberto Settembre, uno dei magistrati che ha composto il Collegio dell’Appello del processo per i fatti occorsi alla caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001.
Un libro che, prendendo le mosse dai verbali delle deposizioni delle persone, italiane e straniere, arrestate e seviziate per ore e ore presso la Caserma di Bolzaneto, non risparmia nulla delle torture subite da quelle persone, che l’autore definisce “prigionieri” (per buona parte del tutto innocenti rispetto alle devastazioni subite dalla città, se a qualcosa vale la precisazione): centinaia di persone (uomini e donne, giovani e meno) derise, umiliate, picchiate selvaggiamente e vigliaccamente, private di tutto a partire dalla dignità (molte persone costrette a fare flessioni nudi o a farsela addosso, tanto per esemplificare). Il tutto per giorni interi in una situazione di completa sospensione dei diritti civili e dello Stato di diritto.
Così la lettura delle torture diventa una tortura essa stessa, e quasi si arriva a detestare l’autore che, in modo volutamente asettico, indulge però nei particolari (il sangue, il vomito…) e sempre domina la vergogna per quello che è stato commesso da persone che rappresentavano lo Stato. Non in Cile, in Messico o in Cambogia. In Italia, a Genova. A casa nostra. Una delle pagine più brutte della nostra giovane Nazione.
Un libro da leggere per non dimenticare e che rimarca la scandalosa inerzia italiana nell’introdurre nell’ordinamento il reato di tortura a 32 anni dalla Convenzione ONU contro la tortura del 1984 e a quasi un anno dalla severissima condanna inflitta dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo proprio per i fatti di Genova (condanna motivata sia da quanto accaduto sia dalla mancata previsione del reato di tortura all’interno dell’ordinamento).
In un paese che soffre di elefantiasi normativa, che sull’onda emotiva di fatti di cronaca non perde occasione per introdurre reati giuridicamente dissennati, inutili e disorganici come l’immigrazione clandestina e come l’omicidio stradale (per fare esempi recenti)non si introduce l’unico reato che si dovrebbe (per espresso monito della Corte CEDU) e avrebbe senso prevedere, come in tanti altri stati europei (Inghilterra, Francia, Spagna etc).
Perché? Molto semplice: perché non porta voti, anzi, ne fa probabilmente perdere.
E questo ci porta a un’ulteriore considerazione. Se la politica non si decide, anzi palesemente tergiversa per non rischiare di essere impopolare, allora significa che nell’opinione pubblica non si sente alcuna necessità di una norma del genere perché, agli occhi dell’uomo della strada, la giustizia non funziona e non punisce a sufficienza e allora meglio delegare la sanzione a un poliziotto dalle mani pesanti, meglio girarsi dall’altra parte a fronte dei piccoli e grandi soprusi quotidiani delle forze dell’ordine (nonostante il caso Cucchi, nonostante il caso Uva, nonostante tutto), perché tutto sommato “se li menano allora se lo saranno meritato”.
Di qui l’amara ma inevitabile conclusione: l’introduzione del reato di tortura è necessaria ma non basta. Come per qualsiasi altro fenomeno sociale (maltrattamenti in famiglia, circolazione stradale…), la legge, più o meno draconiana, deve discendere da un sostrato sociale concreto, deve essere condivisa dalla comunità e percepita come giusta. Ecco, si deve operare a livello di società, di cultura dei diritti civili e delle libertà politiche. Perché lo stato di diritto non debba più vivere notti buie come quelle di Genova.
Diamola per letta
7 marzo 2016
Fine pena: ora
Elvio Fassone
Un lungo e complicato processo di criminalità organizzata in Corte d’Assise, con centinaia di imputati e lunghe ed estenuanti udienze. Clima difficile, a tratti insostenibile: la sfida tra criminalità e Stato si percepisce palesemente. Eppure il Presidente della Corte, da uno sguardo o da qualche parola scambiata velocemente con Salvatore, uno degli imputati, giovane capo mafia, intuisce che forse con lui si può stabilire un contatto che vada al di là del freddo rapporto giudice-imputato.
Intuisce che dietro a un imputato – per quanto pluriomicida – c’è un uomo, dolorosamente rassegnato al proprio destino di ergastolano: “Presidente, se suo figlio nasceva dove sono nato io adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”. Il Giudice rimugina a lungo su queste parole e il giorno dopo avere firmato la sentenza che condanna Salvatore e tanti altri all’ergastolo (quindi “spegnendogli la vita, anche se dietro lo scudo della legge”), quasi irrazionalmente prende carta e penna e gli scrive, inviandogli “Siddharta” di Hermann Hesse.
Prende così il via a un carteggio che durerà 26 anni. “Fine pena mai” è la storia, vera, di questo carteggio, del rapporto epistolare quasi paradossale tra chi, Salvatore, ha ucciso, e chi lo ha giudicato, stabilendo che fosse troppo pericoloso per non essere privato della sua libertà per sempre.
A scrivere è un magistrato di grande prestigio, poi senatore per due legislature, che, partendo dalle angosciose esperienze di Salvatore nei vari carceri d’Italia, tocca svariati temi, dal senso profondo della pena (anche sotto il profilo dell’incostituzionalità dell’ergastolo o quantomeno dell’ergastolo ostativo), alla drammatica situazione delle nostre carceri, alla reale possibilità di rieducazione del condannato all’inumanità lacerante del regime del 41 bis: particolarmente toccanti, tra gli altri, i racconti di Salvatore del primo permesso premio dopo decenni di carcere duro (“non sapevo nemmeno camminare…fuori è tutto nuovo per me, le macchine, la roba che c’è nei negozi, la gente com’è vestita, anche il fatto di pagare con l’euro”) e della fine della relazione con Rosi, la ragazza che gli ha sempre dato la forza per andare avanti, seguendolo fedelmente per tutte le carceri, salvo poi accorgersi amaramente dell’impossibilità di avere un futuro e una famiglia con un ergastolano.
In definitiva un libro che affronta temi tanto coraggiosi quanto, in questi tempi manettari e giustizialisti, clamorosamente impopolari: averli affrontati proponendo una storia vera eppure così particolare, a tratti sicuramente commovente, fa di questo “Fine pena: ora” un grande libro.
L’editoriale del vecchio penalista
4 marzo 2016
Il cenotafio della procedura penale
Prima che le orde barbariche di tipo padano portassero lesioni alla lingua ufficiale della Repubblica era annoverato e conosciuto nella lingua italiana il termine “cenotafio”.
In quei bei tempi fin dal ginnasio s’apprendeva che cenotafio sta a significare “sepolcro vuoto – tomba vuota”.
Quale parola migliore per indicare ciò che è attualmente l’udienza preliminare (artt. 416 e segg. C.P.P.)?
Per illustrare il nostro pensiero dobbiamo risalire alle riflessioni ed alle intenzioni del legislatore che varò il DPR 447/1988.
Quel legislatore colto, affiancato da un guardasigilli altrettanto preparato, il Prof. Vassalli, si rendeva perfettamente conto di che cosa significasse e che onere comportasse la formazione della prova innanzi al giudice del dibattimento.
Tanto che Vassalli in una seduta della commissione giustizia al senato pronunziò questo severo dubbio: forse sarebbe stato meglio novellare il codice Rocco prevedendo la presenza dei difensori nella fase d’acquisizione delle prove in istruttoria formale o sommaria e, segnatamente, le testimonianze.
Previsioni puntualmente avverate: in un processo di qualche consistenza le testimonianze richiedono tempi lunghi e numerose udienze.
Abbiamo definito “colto” il legislatore del 1988, dobbiamo aggiungere pragmaticamente sapiente.
Nutrite queste preoccupazioni, il legislatore pensò e intese relegare il giudizio ordinario in posizione statisticamente minoritaria; per ottenere questo risultato si agì in duplice direzione:
– con la creazione di riti alternativi;
– con il filtro dell’udienza preliminare.
Portati sul terreno dell’applicazione pratica questi istituti non si può affermare che il risultato sia stato raggiunto.
I riti alternativi (giudizio abbreviato artt. 438 e segg. ed il cosiddetto patteggiamento artt. 444 e segg. C.P.P.) sono ancora oggi metabolizzati con difficoltà delle parti processuali (pubblica e privata) e talora dagli stessi giudici.
Gli esempi sono numerosi e ben chiari: l’applicazione di pena su richiesta è ineludibilmente legata al consenso del Pubblico Ministero ed al vaglio di congruità del giudice.
Il giudizio abbreviato mostra invece il fianco al momento della determinazione della pena allorché il Pubblico Ministero nella sua richiesta e spesso il Giudice nella sua decisione collocano la pena finale ad un livello tale da rendere sostanzialmente inoperante la diminuente del rito.
Tutto ciò crea sospetto e disaffezione degli imputati che si sentono maggiormente garantiti dal rito ordinario.
* * * * * *
La tomba più disperatamente vuota è certamente l’udienza preliminare: insuperabile prova del nostro assunto è il rapporto statistico fra sentenza di non luogo a procedere e decreti di rinvio a giudizio.
Questa clamorosa distonia è forse dovuta all’ineccepibile lavoro d’indagine dei magistrati requirenti?
Fermo restando il riconosciuto e serio impegno dei pubblici ministeri, la risposta non può che essere negativa: prova ne sia l’alta percentuale di proscioglimenti in primo grado ed in appello.
Vero è invece che, anche per taluni indirizzi della Corte regolatrice, si è rinunziato al concetto che l’udienza preliminare è un primo livello di merito, pur se in funzione prognostica.
Diversamente opinando, che senso avrebbe il III° comma dell’art425 C.P.P.?
“Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.
Se le fonti di prova sono insufficienti o contraddittorie bene è possibile integrare e rimediare a dibattimento, con buona pace dell’istituto e della volontà del legislatore.
V’è poi un’ultima notazione di carattere meramente pratico: quando il G.U.P. è chiamato ad esaminare 20/30 processi in un giorno, certamente potrà emettere i decreti che dispongono il giudizio (cioè una data); del pari e sicuramente non potrà motivare sentenze di non luogo a procedere “dandone immediata lettura”.
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E dunque con tanto rammarico “habent sua sidera lites”.
Restyling sito internet
1 marzo 2016
E’ in linea il nuovo sito della Camera Penale di Novara che è stato sottoposto ad un completo restyling.
Diamola per letta
3 febbraio 2016
Cattivi
Maurizio Torchio
E’ una tentazione vecchia quanto l’essere umano, quella di ritenere che in quelle fortezze inespugnabili, più o meno lontane dal cuore delle nostre tranquille città, ci siano persone diverse da noi (i “cattivi”), che non ridono, non piangono, non hanno sentimenti, paure e progetti. Fa molto comodo pensarlo ma forse non è così e questo romanzo, incentrato sui “cattivi” nel senso etimologico di “prigionieri”, lo dimostra in modo crudo e senza pietismi.
E’un ergastolano, della cui vita ante carcere non si scopre quasi nulla ma che si è macchiato di gravissimi reati (prima un sequestro di persona a scopo di estorsione poi l’omicidio di un poliziotto penitenziario) a raccontare la vita del carcere, i rapporti con gli altri detenuti, le dinamiche, le gerarchie e le leggi che regolano la vita dei reclusi e di quella sorta di prigionieri in altra forma che sono le guardie.
Torchio si inserisce in quella classe di autori (Dostojevsky in testa, ovviamente e sia pure con le debite differenze) che, penetrando la psicologia del reo, creano una sorta di empatia, irrazionale e irresistibile, con il lettore. Non si riesce a odiare un uomo che, pur macchiatosi di terribili delitti (l’ultimo dei quali, l’omidicio del secondino, pressochè gratuito), rimane pur sempre tale, anche e a dispetto di un sistema, quello del carcere, teso proprio a spogliare di tutto, a “de-umanizzare” chi vi si trova invischiato.
Il libro scorre bene con una narrazione semplice e disadorna che ben si accompagna all’assenza di una vera trama ma sulla tensione di un’onda di dolore vivo (le pagine sui pestaggi o sulle visite dei parenti) e nel pudico accenno di un amore per la “principessa del caffè” (la donna sequestrata, con il quale il protagonista sogna irrazionalmente una vita al di fuori del carcere).
Un libro profondo, potente e a tratti giustamente brutale, che fa riflettere sulla coerenza tra una pena scontata in carcere e le finalità rieducative dettate dalla Costituzione.