News 2015

Notizie, novità e comunicazioni

Assemblea aperta

2 dicembre 2015

Assemblea aperta.
Ore 11,30 presso la Sala dell’Ordine degli Avvocati di Novara. L’incontro è aperto anche ai non associati. L’ordine del giorno prevede di trattare le “Ragioni dell’astensione indetta per i giorni dal 30 novembre al 4 dicembre” e la “Situazione degli Uffici Giudiziari Novaresi”.

Più braccialetti meno carcere

30 novembre 2015
Sensibilizzazione di operatori del diritto e opinione pubblica all’uso del braccialetto elettronico (l’UCPI ha indetto la giornata nazionale del braccialetto elettronico).

L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, denuncia la parziale e minima applicazione del braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari.
Il 30 novembre 2015, nel 1° giorno di Astensione dalle udienze, iniziative in tutti i Palazzi di Giustizia e manifestazione nazionale a Firenze.
La parziale e minima applicazione dell’art. 275 bis del codice di procedura penale e dell’art. 58 quinques O.P., per quest’ultimo possiamo dire inesistente, è in palese violazione dei diritti dei detenuti e in contrasto con l’esigenza di superare e prevenire il sovraffollamento nelle carceri italiane.
Anche a Novara, sono stati distribuiti braccialetti con la scritta “+ BRACCIALETTI – CARCERE”, da portare al polso per chi ha ritenuto di sostenere l’iniziativa

Diamola per letta

28 dicembre 2015

Un passo fuori dalla notte
Raffaele Sollecito

Il caso dell’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher è stato uno dei casi giudiziari che più ha appassionato gli italiani, come al solito strenuamente divisi in colpevolisti e innocentisti non certo sulla base della conoscenza degli atti processuali ma delle impressioni, delle simpatie e antipatie e dei consueti (pre) giudizi sulle persone coinvolte.
Ora, in seguito alla sentenza della Cassazione che ha messo la parola fine alla vicenda processuale, annullando senza rinvio la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze nel processo bis, Raffaele Sollecito racconta la sua verità (e la sua vita) e cerca di spiegare con quanta facilità si possa passare da studente universitario modello, prossimo alla laurea, a mostro sbattuto in prima pagina (e in carcere per quattro lunghissimi anni); e cerca nondimeno di spiegare, al contrario, con quanta difficoltà anche oggi che la sua estraneità all’omicidio di Meredith Kercher è stata accertata definitivamente, lui non possa camminare per la strada senza essere riconosciuto, guardato con sospetto, additato o senza che gli sia addirittura richiesto di posare per un selfie. Nemmeno la Cassazione può nulla contro lo stigma e contro la lettera scarlatta.
Si tratta quindi di un libro interessante anche per gli operatori del diritto non solo perché le fasi processuali sono raccontate con dovizia di particolari (a partire da quelle iniziali, in cui Sollecito – sulla scorta di un’inveterata e riprovevole prassi – viene reiteratamente sentito come “persona informata sui fatti”) ma soprattutto perché la stessa sentenza della Cassazione ha apertamente sottolineato come la risonanza mediatica internazionale della vicenda abbia influito negativamente su indagini caratterizzate oltre che da “clamorose defaillance investigative”, dalla “spasmodica ricerca di colpevoli da consegnare all’opinione pubblica”. Un tema che, nell’epoca dei talk show e dei processi in diretta tv, è di strettissima e drammatica attualità (si pensi alla nota vicenda del filmato del furgone di Bossetti).

Diamola per letta

21 Novembre 2015

Io non posso tacere. Confessioni di un giudice di sinistra
Piero Tony

Critica feroce dell’abuso della custodia cautelare “utilizzata come pressione psicologica quasi estorsiva”, analisi spietata delle supplenze della magistratura rispetto all’ignavia della politica, presa di distanza dalla spettacolarizzazione mediatica del processo, denuncia dell’impunità disciplinare dei magistrati etc. etc.
Tutto già visto, già sentito, forse non molto originale. Ma la novità è che questa volta la firma non è del giornalista schierato politicamente oppure dell’avvocato irriducibilmente garantista. Il tutto è invece contenuto in un centinaio di pagine al vetriolo scritte da un “certificato e autocertificato magistrato di sinistra”, aderente a Magistratura Democratica e che sostiene di essersi imposto una pensione anticipata, quand’era a capo della Procura di Prato, per non tollerare ulteriormente le storture del sistema, le connivenze e le responsabilità, ed anzi essere libero di denunciarle, “di non tacere”: Piero Tony, una vita spesa in magistratura con una brillante carriera in casi che hanno segnato la storia italiana, giudiziaria e non (Brigate Rosse, mostro di Firenze…), non lesina fendenti senza badare a pestare i piedi a tanti suoi ex colleghi (alcuni dei quali liquidati come più simili a “soubrette che a notai della giustizia”).
Certo, l’autore non nega che il sistema sia rovinato da poche mele marce e che la stragrande maggioranza dei magistrati lavora seriamente nel rispetto delle regole: non manca però di criticare duramente l’abuso delle intercettazioni (pur ritenute indispensabili) e del sistema dei pentiti, l’ottusità delle posizioni oppositive alla separazione delle carriere, alla responsabilità civile dei magistrati e al superamento del totem dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Sin qui la pars destruens. Sarebbe ingiusto dimenticare la pars construens, che non manca ed è ben argomentata, in una prospettiva di riforma sia della magistratura sia del processo (che poi è quello che più ci interessa): così l’autore auspica, tra l’altro, l’introduzione del divieto di appello da parte del PM contro le sentenze di primo grado (come nei sistemi anglosassoni), l’abolizione dell’ergastolo, pena evidentemente incostituzionale, il rafforzamento della possibilità di beneficiare di pene alternative al carcere, da lasciare residualmente come “ultima opzione”, la riforma della prescrizione (“da interrompere con la sentenza di primo grado ma non per l’eternità, apparendo difforme a giustizia sottoporre un indagato a una spada di Damocle senza limiti solo per l’incapacità di un PM di provarne la responsabilità in tempi ragionevoli”) e così via con altre condivisibili proposte come l’amnistia e un’ampia depenalizzazione etc.
Vero è, tuttavia, che il tratto distintivo dell’opera, forse al di là anche delle intenzioni dello stesso Autore, è la durezza della critica nei confronti della magistratura e di come essa pieghi il codice di procedura penale alle proprie esigenze.
Dunque uno j’accuse formidabile ma, ci viene da aggiungere, desolatamente tardivo.
E’mai possibile che l’autore possa lanciare le sue accuse soltanto ora che è uscito dalla magistratura “perché altrimenti, per porsi al riparo dagli attacchi”, avrebbe “dovuto affrontare seri problemi di correnti associative”? Gli avrebbero messo il bavaglio, in altre parole?
Il particolare è inquietante dacché, tra politica occupata soltanto a vellicare i peggiori istinti dell’elettorato e magistratura almeno in parte ostaggio delle perverse logiche denunciate dall’autore, sembra restare soltanto l’avvocatura, con tutti i suoi innumerevoli problemi, a difendere lo Stato di diritto, mentre, come dice giustamente l’autore, “non è necessario essere avvocati per essere garantisti”. Non è necessario ma, allo stato dell’arte, evidentemente aiuta molto.

L’editoriale del vecchio penalista

19 novembre 2015

Dei delitti e delle pene 1764 – 2015

Venticinque anni prima della rivoluzione francese Cesare Bonesana Beccaria, marchese di Gualdrasco e di Villareggio, scrisse la sua opera più famosa “Dei delitti e delle pene”.
Oltre due secoli fa il processo penale e il suo epilogo “la pena” meritavano l’attenzione del grande illuminista.
Se la critica e la censura della pena di morte e della tortura hanno valore permanente e universale, meno noti ma altrettanto validi sono altri postulati del pensiero del Beccaria.
Quanta attualità v’è nell’affermazione che più che la gravità della pena ne conti “la certezza”.
Portata ai nostri tempi e nel nostro Paese, la certezza della pena è ancora argomento di riflessione.
E ciò non tanto per la fisiologica distonia fra pena edittale e pena in concreto, quanto per l’aleatorietà della sua fase esecutiva.
E valga l’esempio più noto: si dice dell’ergastolo “fine pena mai”; in numerosissimi casi ciò non accade, si pensi alla liberazione anticipata o alla grazia.
Nell’anno domini 2015 ci sentiamo di aderire totalmente alla riflessioni del grande illuminista: l’effetto deterrente della pena non sta nella sua gravità ma nella certezza dell’espiazione.
In altre parole è inutile prevedere per un reato numerosi anni di prigione quando il reo sa bene che in sede esecutiva ciò non avverrà.
E questa prima riflessione altre ne suscita.
Troppo spesso il legislatore, con mera vocazione populista, inasprisce le pene sull’onda dell’opinione pubblica emozionata da fatti che la turbano.
La vicenda è di questi giorni: la creazione dell’omicidio “stradale” come figura autonoma rispetto al reato previsto e punito dall’art. 589 C.P..
Abbiano già avuto occasione di affermare (a nostro avviso) la totale inutilità di questa novellazione; l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione fino a sette anni e, ove aggravato, fino a dieci per arrivare a quindici nell’ipotesi prevista dall’ultimo comma dell’art, 589 C.P..
Dunque pene assai severe ove concretamente irrogate.
Ma a questo punto s’innesta una possibile, concreta devianza: spesso in sede di cognizione i giudici (forse nel rispetto dei criteri sanciti dall’art. 133 C.P.) applicano i minimi della pena, fors’anche diminuiti da possibili attenuanti.
Il legislatore, non potendo ordinare ai giudici comportamenti diversi da quelli previsti dalla legge, inasprisce le pene.
Ma questa scelta ci appare persino contraria ad un ordinamento democratico e ci fa ricordare con un tremito il diritto penale nella Germania nazista.
La questione della certezza della pena assume nel nostro Paese ed in questi anni una dimensione ulteriormente preoccupante per un’emergenza sociale in atto: l’arrivo e la presenza sul territorio nazionale di cittadini extracomunitari appartenenti a culture del tutto dissimili a quella italiana ed europea.
Portiamo un esempio per fare intendere il nostro pensiero: vi sono paesi di cultura e diritto islamici dove il reato di furto è punito con il taglio delle mani; che portata deterrente può avere che in Italia il furto è punito con qualche mese di reclusione, spesso con un processo lontano dai fatti e magari con l’epilogo della sospensione condizionale della pena?
Ovviamente nessuno auspica l’introduzione di incivili pene corporali; ma occorrerà, almeno, celebrare rapidamente i processi, possibilmente con rito direttissimo, e concedendo la sospensione condizionale nel puntuale rispetto dell’art. 164 C.P. ovvero quando in via prognostica vi sia certezza che il condannato non commetterà altri reati.
Questa è pretesa che il governo può avere nei confronti dei giudici perché del tutto conforme a legge.
Sperando che il legislatore si desti dal sonno della ragione.

L’editoriale del vecchio penalista

30 luglio 2015

Il processo penale e la dignità del cittadino

Da moltissimi anni nel nostro Paese il processo penale (ovvero il procedimento con il quale lo Stato esercita la sua pretesa punitiva) è diventato teatro sociale sul quale si esercitano i mezzi d’informazione.
Due obiettivi diversi: da un lato il complesso di atti che lo Stato (Autorità Giudiziaria) compie per accertare la colpevolezza di un cittadino; dall’altro l’interesse della società ad essere informata su fatti che ritiene rilevanti.
Non v’è dubbio che i due diversi scopi possano essere raggiunti in un variegato equilibrio di rapporti che mutano da nazione a nazione.
Nel nostro Paese questo equilibrio potrebbe essere realizzato con il puntuale rispetto dei principi della nostra Carta Costituzionale e della L. 4/8/1955 n 848 (salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali).
Ci sembra opportuno rammentare almeno i più significativi di questi principi:
art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo …”
art. 13: “La libertà personale è inviolabile.
Non è anmmessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale”
art. 15: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”
art. 21: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”
art. 24: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”
art. 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”
art. 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”
art. 111 “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla Legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti a Giudice terzo ed imparziale.
La legge ne assicura laragionevole durata”

* * * * *

Rammentiamo ora rapidamente i più importanti enunciati della L. 4/8/1955 n. 848:
art. 2: “Il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge …”
art. 3: “Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti”
art. 5: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza …”
art. 6: “Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale …”
art. 8 “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”
art. 9 “Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione …”
art. 10 “Ogni persona ha diritto di libertà d’espressione”
art. 13 “Ogni persona i cui diritti e libertà riconosciuti nella presente Convenzione fossero violati, ha diritto di presentare un ricorso avanti a una magistratura nazionale …”
art. 14 “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito senza alcuna distinzione …”
L’enunciaizone, forse noiosa, delle norme sopracitate dà conto che, ove correttamente applicate, sarebbe risolto il problema d’equilibrio fra processo penale e diritto d’informazione.
Questo purtroppo non accade.
E’ praticamente prassi quotidiana quella d’immortalare con fotografie la persona arrestata o condotta a processo; prassi definita “sbatti il mostro in prima pagina”. Queste fotografie o filmati hanno per il cittadino imputato un effetto devastante; infatti l’uomo in manette rappresenta “il condannato” nell’immaginario collettivo. E poco importa che il processo non sia giunto a sentenza o neppure iniziato!! Se questo sfortunato cittadino venassolto o non ne saranno date immagini o esse saranno di minimo rilievo; dunque nell’opinione pubblica rimarrà l’immagine del colpevole con conseguenze devastanti per l’interessato. A noi pare che il diritto democratico all’informazione sarebbe compiutamente assolto con la semplice notizia che il cittadino “tal dei tali” è accusato d’omicidio e sarà processato; che rilievo possono avere le sue fattezze? Sul sistema giudiziario anglosassone nutriamo molte riserve: ad esempio non ci convince la struttura delle impugnazioni. Ma in materia di tutela dell’immagine del cittadino abbiamo molto da imparare: niente foto o filmati fuori o dentro le aule giudiziarie. Giornali inglesi autorevoli si limitano a descrizioni grafiche (disegni) di fantasia perchè non può essere il volto dell’imputato a soddisfare l’interesse dell’opinione pubblica; bensì, e soltanto, la notizia di un fatto criminale e l’evolversi del processo.
Naturalmente v’è chi tra evantaggio della situazione che critichiamo: innanzi tutto gli organi d’informazione (giornali-tv) ovvero giornalisti ed editori; ma neppure la classe forense va immune da censure: infatti taluni avvocati che hanno un ruolo nei processi “da scoop” ne approfittano per farsi propaganda, contribuendo a svilire il processo penale: quello che per accentuare il momento rituale impone, ancor oggi, l’uso delle toghe.

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E’ del tutto attuale un’altra situazione i cui diritti dei cittadini sono violati o scalfiti: si tratta delle intercettazioni telefoniche e ambientali.
Dobbiamo chiarire il nostro pensiero: vi sono fatti penalmente rilevanti per l’accettamento dei quali le intercettazioni sono utili e persino indispensabili. Nell’ambito di questi reati l’autorità giudiziaria dispone le intercettazioni, ne verifica le attuazioni e raccoglie mezzi di prova: ragionevolmente nessuno potrebbe muovere obiezioni a questa prassi.
I problemi nascono dali’uso che vien fatto delle intercettazioni eseguite.
Un primo aspetto patologico si verifica allorché del contenuto delle intercettazioni venga data pubblicità prima della conclusione delle indagini sancita dall’avviso ex art. 415 bis C.P.P.. Prima della discovery gli atti d’indagine (registrazioni comprese) restano nell’esclusiva disponibilità del Pubblico Ministero; se di esse sia stata data comunicazione ai difensori questi dovrebbero essere tenuti al massimo riserbo sotto pena di sanzioni.
Accade invece frequentemente che gli organi d’informazione vengono in possesso di questi atti d’indagine e li pubblichino: tale comportamento non accettabile e deve essere sanzionato.
Problema diverso è quello della pubblicazione dopo l’intervenuta discovery: normale, ma per nulla accettabile che, a questo punto, si trovino sui media copia d’interi atti processuali: verbali d’interrogatorio, sommarie informazioni testimoniali e, appunto, intercettazioni. Dunque il processo si celebra prima sui media che nel luogo istituzionale (i Tribunali). Il cittadino indagato, le patti offese, i testimoni si troveranno esposti al pubblico giudizio con ben pochi mezzi per replicare e tutelarsi. Non ci pare che tutto ciò si ispiri a quei principi costituzionali che abbiamo in precedenza elencato. E a tutto ciò il legislatore dovrà porre rimedio. Ma vi sono aspetti ancor più preoccupanti:
– le intercettazioni spesso riguardano persone indagate che interloquiscono con cittadini che indagati non sono: come si tutela il diritto alla riservatezza di questi ultimi?
– Ancora, accade frequentemente che le intercettazioni raccolgano fatti non penalmente rilevanti: perché essi possono divenire pubblici?

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Proprio mentre stiamo scrivendo queste nostre sintetiche riflessioni il Parlamento sta esaminando e discutendo un disegno di legge che dovrebbe risolvere i problemi che abbiamo enunciato. Osservando i lavori parlamentari ci pare dover constatare che ancora una volta, i partiti siano più attenti a raccogliere consensi che a dare al paese una legge che contribuisca a trasformare i sudditi in cittadini.
Mancano agli organi legislativi (Senato e Camera dei deputati) personaggi come Piero Calamandrei.
Noi vonemmo che fra i requisiti soggettivi per l’elezione al parlamento, i candidati dovessero dimostrare di aver letto ed imparato l’insegnamento di Calamandrei. “per aspera ad astra”.

L’editoriale del vecchio penalista

16 maggio 2015

Populismo e giustizia

Nella comune accezione, e prescindendo da esperienze storiche esaurite, si può intendere per populismo la volontà delle forze di governo di un paese di accedere alla volontà popolare indipendentemente da una valutazione di merito tecnico e di spessore etico.
Il confine fra populismo e demagogia è invero assai labile, certo ai nostri giorni e nel nostro Paese è proprio la volontà demagogica a prevalere.
Da ciò deriva che applicare pulsioni demagogiche ad una materia quale la giustizia può produrre effetti tanto negativi da creare vera ingiustizia.
La storia dell’uomo è costellata da ingiustizie realizzate per compiacere le masse (il popolo!); basterà citare l’esempio più famoso: quello di un giovane nazareno, del tutto innocente, torturato ed ucciso per volontà di una folla urlante e la compiacenza di governanti protervi ed imbelli.
Se la nostra analisi è corretta essa si scontra con il disposto dell’art. 125 n° 2 C.P.P. e dell’art. 101 della Costituzione?
Queste norme rispettivamente recitano:
La sentenza è pronunciata nel nome del popolo italiano”.
La giustizia è amministrata nel nome del popolo italiano”.
Non v’è contraddizione: questi precetti stanno a significare che non vi sono altri soggetti, fuorché il popolo, destinatari delle norme e che il giudice, voce dello Stato, ad altri non risponde se non allo stato stesso e alla legge.
D’altra parte questo principio è espressamente sancito dalla seconda parte dell’art. 101 della Costituzione che recita: “I giudici sono soggetti solo alla legge”.
Dunque la sentenza è “giusta” non quando riscontra i desideri popolari ma quando razionalmente e puntualmente applica la legge.
Far coincidere quanto è atteso e preteso dal popolo e quanto disposto dalla legge è sforzo culturale di lunga lena e nel nostro Paese decisamente urgente.
Bisognerà spiegare e far capire che il Giudice non fa giustizia, come taluno invoca, il Giudice applica la legge!
Altro principio di straordinaria importanza è quello contenuto nell’art. 3 della Costituzione che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge…”, ovvero la legge è uguale per tutti.
Questo principio di grande civiltà e valore etico non è stato ancora compiutamente metabolizzato dalla collettività e dovrà dunque ancora essere illustrato ed insegnato.
Il nostro assunto è confortato da osservazioni e statistiche; ancora oggi il cittadino indagato in sede penale, spesso protestando la propria innocenza, deplora la norma che lo riguarda, salvo ritenerla troppo blanda e corriva quando esso cittadino è parte offesa da un reato.
Attesa la latitanza delle forze politiche, lo sforzo di inculcare principi giuridici democratici e conformi alla nostra ottima Costituzione può essere assunto dalla magistratura (soprattutto in sede giurisdizionale) e dall’avvocatura con il proprio agire e insegnamento.

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Le forze politiche, i partiti politici rincorrono spesso, con maggiore o minore intensità, la velleità popolari del momento.
Un esempio dei nostri giorni: la pretesa di creare una figura di delitto definita “omicidio stradale”.
Siamo alla compiuta irragionevolezza giuridica; il nostro ordinamento prevede ben tre fattispecie d’omicidio: volontario, colposo, preterintenzionale.
E’ evidente che la morte di una o più persone per conseguenza di sinistro stradale può essere agevolmente incasellata in una delle fattispecie teoriche esistenti!
E soltanto il Giudice potrà stabilire se v’è stato dolo (e quale dolo) o colpa.
Se si ritiene che l’omicidio conseguente a sinistro stradale meriti un trattamento sanzionatorio severo ben si potrà operare sulla pena base o sul sistema delle circostanze.
Il vigente art. 589 C.P. recita: “Chiunque cagioni per colpa (43) la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni. Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da: 1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni; 2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotropi che. Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni (582) di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici”.
Com’è facile constatare l’”omicidio stradale” già esiste in diritto positivo: che altro si vuole?
La proterva volontà plebea talora si scatena in presenza di fatti con significativo impatto mediatico.
Terreno fertile è quello di alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione: si tratta di concussione e corruzione.
L’art. 317 C.P. – concussione -, prevede la reclusione da sei a dodici anni che possono essere ancora aumentati in presenza di circostanze aggravanti; l’art. 319 C.P. – corruzione -, ha come sanzione la reclusione da 4 ad otto anni, con possibilità di aumento per aggravanti.
Come si vede le pene sono già molto severe e la volontà popolare, per quanto comprensibile, deve essere diversamente indirizzata: sollecita individuazione dei colpevoli, processi tempestivi, pena certa.
Tutto ciò che attualmente manca al sistema.

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Altro terreno sul quale si sfoga frequentemente una inaccettabile volontà popolare è quello dell’indegna censura delle decisioni (sentenze) dei Giudici.
Se una parte d’opinione pubblica è convinta della colpevolezza di un imputato che i giudici, invece, assolvono, scatta un’indignata protesta del tutto priva di fondamento:
– la folla urlante non conosce gli atti processuali;
– come s’è visto il Giudice non fa giustizia, applica soltanto le leggi;
– se le leggi non sono condivise, vi sono gli strumenti democratici per cambiarle.
Come s’è detto le forze politiche, invece che respingere codeste pretese, le assecondano ed ecco la demagogia in azione!
Eppure la storia recente avrebbe dovuto fornire un’indelebile insegnamento: nella Germania nazista reato era ciò che il popolo riteneva deprecabile.
Auctoritas non veritas facit legem!!!

Open Day UCPI

12 maggio 2015

Primo Open Day UCPI – Rimini 12 – 13 giugno 2015 – Le radici dell’Unione ed il futuro a confronto: una giornata dedicata ai nostri osservatori e commissioni, alle prospettive dei giovani penalisti, alla specializzazione e alla formazione”.

Comunicato UCPI

9 aprile 2015

La Camera Penale di Novara in questo momento di profondo turbamento desidera esprimere il proprio cordoglio e la propria vicinanza ai familiari del Collega Claris Appiani e delle altre innocenti vittime dell’assurda strage di Milano.

L’editoriale del vecchio penalista

20 marzo 2015

Esegesi breve sul disegno di legge governativo in materia di prescrizione e sul decreto legislativi 31/12/2012 n° 235 (c.d. Legge Severino)

La Giustizia è un servizio che lo Stato rende ai cittadini similmente alla sanità e alla difesa.
E’ dunque con gli occhi dei cittadini e non di lobby professionali che su questo servizio si possono e si debbono esprimere giudizi.
E questi giudizi non possono essere che tristemente severi poiché colgono nel funzionamento della Giustizia un comune denominatore: destinatari non sono i cittadini ma sudditi e ciò in spregio ad un altissimo disegno costituzionale.
A sostenere l’assunto gli esempi si sprecano; vale menzionarne solo alcuni:
– in violazione a quanto disposto dall’art. 20 D.M. 334/89 i cittadini (parti private, testimoni, difensori) vengono tutti convocati alla stessa ora (circa le nove del mattino) ove attendono anche ore che il processo che li riguarda venga chiamato.
– Vi sono processi complessi ove il Pubblico Ministero è impegnato per mesi e talora per anni e in cui l’indagine si conclude con migliaia di pagine di atti; ebbene, data comunicazione ex art. 415 bis C.P.P., il cittadino ha venti giorni per sviluppare le proprie difese.
– I termini processuali sono normalmente perentori e decadenziali per le parti private e meramente ordinatori per PM e Giudici.
Dunque, lo Stato dei sudditi.
Ed è in questo contesto che si colloca il dibattito sulla prescrizione.
E’ opportuno ricordare che la prescrizione è l’istituto in virtù del quale il decorso del tempo estingue il reato.
La materia è regolata dagli artt. 157 e segg. C.P. evidenziato che negli ultimi anni i termini, già molto ampi, sono stati ulteriormente dilatati (vedasi L. 5/12/2005 n° 251).
Attualmente vi sono reati (art. 589 cpv C.P. e 216 L.F.) per i quali i termini di prescrizione arrivano a 15 anni e ciò con buona pace dell’art. 111 Costituzione.
Un osservatore immune da pregiudizi ideologici non può che trarre questa constatazione:
– un Cittadino indagato / imputato deve attendere ben 15 anni per vedere accertata la propria innocenza e, se colpevole, dovrà espiare una pena che riguarda una persona diversa (il volgere del tempo cambia in meglio o in peggio l’essere umano).
– D’altra parte, la parte offesa dal reato deve attendere un’eternità per vedere accolte le proprie legittime pretese.
Se è vero che uno Stato è democratico “se garantisce il possesso dei diritti” (Stuart Mill) pare difficile attribuirne il connotato allo Stato Italiano.
Ed anzi, proprio in questi giorni, in uno scambio d’amorosi sensi, governo e parlamento danno impulso legislativo ad un’ulteriore dilatazione della prescrizione.
In buona e definitiva sostanza a fronte d’un fenomeno di denegata giustizia invece di porre rimedio si aggrava il quadro complessivo!!!
La diagnosi è estremamente semplice: atteso il carico di lavoro esistente, lo Stato dovrebbe operare in due direzioni:
– adottare norme di carattere deflattivo;
– destinare più risorse alla Giustizia.
Circa il primo punto occorre rompere lo schema in virtù del quale l’unico strumento di controllo sociale è il processo penale.
Per quanto attiene le risorse è necessario prevederne un aumento volta che nel bilancio dello Stato è riservato alla Giustizia l’1,28% per il 2014 e l’1,27% per il 2015. Tutto ciò in un quadro di rottura di vecchi e infondati sofismi: perché non è vero che i magistrati lavorano poco ed è falso che gli avvocati provochino pretestuosi ritardi.
La legge n° 235/2012, Legge Severino dal nome del Ministro proponente, nasce dalla sconfitta di natura endemica dello Stato e della società italiana: ovvero dall’incapacità della politica di impedire che disonesti occupino cariche amministrative e che, una volta eletti, essi siano costretti ad andarsene.
Insomma da tempo immemorabile la società italiana non ha anticorpi che la liberino dalla presenza di ladri e cialtroni senza che sia necessario l’intervento del Giudice.
Così stando le cose non può che essere apprezzata la norma in esame sostanzialmente costituita da due parti:
– una prima che individua soggetti responsabili (o di garanzia) e procedure intese ai controlli;
– una seconda, di carattere sanzionatorio, che disciplina i casi di ineleggibilità e di decadenza dei responsabili di reati contro la Pubblica Amministrazione.
L’applicazione della legge non ha dato particolari problemi per la prima parte: le Amministrazioni, pur disattente e riottose, si stanno attrezzando e dotando di procedure interne.
Vi sono stati invece contraccolpi sull’applicazione della seconda parte (sanzionatoria) sulla base del generale principio di irretroattività della legge: ovvero essa disciplina i fatti futuri e non quelli passati.
In tema vi sono già state contrastanti decisioni del Giudice Amministrativo e, investita la Corte Costituzionale, si è in attesa della sua decisione.
A noi pare che l’approccio sia “massimalistico”.
Per vero bisogna distinguere l’istituto dell’ineleggibilità da quello della decadenza.
In tema d’ineleggibilità è certamente possibile determinare criteri nuovi circa i requisiti personali che debbono possedere i candidati a cariche elettive (nazionali o locali).
Come si vede nulla di retroattivo: dall’entrata in vigore della legge occorre che i candidati posseggano i requisiti prescritti.
Diverso è l’istituto della decadenza in virtù del quale chi sia stato condannato per un reato non colposo fra quelli indicati dalla legge viene dichiarato decaduto dalla carica ricoperta.
Vale innanzi tutto notare che la norma è diversa da quella codicistica dell’interdizione (artt. 19 – 28 C.P.) poiché questa sanzione accessoria presuppone una sentenza definitiva mentre la legge 31/12/2012 n° 235 fa scattare la sanzione accessoria con la sentenza di primo grado.
Sotto questo profilo l’eccezione d’irretroattività pare fondata allorché si verta su sentenza relativa a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge Severino. In diritto si pronunzierà la Corte Costituzionale; sul versante socio-politico si deve segnalare il cattivo costume che non impone al condannato (in primo grado) di dimettersi per la propria dignità e soprattutto per il decoro della Pubblica Amministrazione.
Noi continuiamo a credere in un vecchio brocardo: “Recte operando ne timeas”.

Educazione alla legalità

10 marzo 2015

Novara, 10 marzo 2015.
“Educazione alla legalità” è il progetto che ormai da diversi anni la Camera Penale di Novara promuove in collaborazione con la Provincia di Novara, organizzando incontri negli istituti scolastici superiori.